
A guardare il suo curriculum non si potrebbe immaginare quello gli sta succedendo: Richard Hawley è stato per lungo tempo uno dei session men più apprezzati d’Inghilterra (ha suonato la sua chitarra per Robbie Williams, Beth Orton e una sfilza di altri nomi); poi è stato l’alter ego di Jarvis Cocker nei Pulp. Un outsider di lusso del rock, verrebbe da pensare, uno di quelli che popolano le scene, sempre un passo indietro rispetto alle luci dei riflettori. Invece ora stanno iniziando tutti ad accorgersi di lui. Merito di un disco solista (il terzo) come “Coles corner”, che ha ricevuto critiche entusiastiche in Inghilterra, e che si sta facendo apprezzare anche qui da noi, con il suo mix di malinconia retrò e attitudine moderna. “Beh, devo dire che tutto questo mi lusinga”, racconta l'artista a Rockol, che l’ha incontrato durante una visita promozionale a Milano. “Ma credo anche che sarebbe potuto succedere tempo fa, se l’avessi voluto. In fin dei conti ho aspettato per tutta la mia vita un’occasione del genere. Non sono un malato di protagonismo come tanti cantanti, forse questo mi ha spinto a non espormi fino ad adesso, ma ora sono contento”.
Lui è esattamente come la sua musica: sembra uscito dagli anni ’50, con i suo capelli ingelatinati tirati indietro e gli occhiali neri alla Roy Orbison, ma il suo aspetto e la sua musica tradiscono un qualcosa di moderno, quasi punk. Nelle canzoni di “Coles corner” il punk non c’è, almeno non direttamente. Ci sono invece canzoni melodiche e malinconiche, che potrebbero venire dal repertorio di Sinatra, Cash o Elvis, se non fossero suonate con un piglio che è tipicamente attuale. “Certamente ho ascoltato tutta questa gente”, dice lui, “ma sono molto sicuro che questo disco avrei potuto farlo solo io, solo adesso. L’ho scritto e registrato in 22 giorni, cercando applicare il metodo della Sun Records: catturare non solo le canzoni, ma l’essenza di chi le suona. Per questo le ho registrate in presa diretta. E non è una questione di tecnologie: il digitale va benissimo, è molto utile e non lo ritengo freddo, come molti miei colleghi che lo ritengono privo d’anima. Il computer è solo uno strumento”.
Tra i tanti riferimenti che vengono in mente ascoltando “Coles Corner” c’è il grande cantautore Scott Walker, che produsse l’ultimo disco dei Pulp. “Scott è stato uno dei più grandi aiuti e sostenitori della mia musica. Ma i suoi dischi erano molto più grandiosi, io ho usato gli archi in tre canzoni, e basta”.
In una cosa “Coles Corner” è retrò: i temi malinconici delle canzoni. Deve il suo titolo ad un luogo della natia Sheffield: “E’ dove si davano appuntamento i miei nonni, il luogo di ritrovo della città”, spiega. “E’ un po’ il simbolo di un modo antico di vivere le relazioni e i posti. Gli attuali amministratori hanno distrutto Sheffield, e Coles Corner non è neanche più indicato. Ma mi piaceva ricordare un tempo in cui la fiducia era la base di tutto: ci si dava un appuntamento un sacco di tempo prima e bisognava fidarsi dell’altro, senza messaggini dell’ultimo minuto… Accadeva a Sheffield come dappertutto”.
Un ultima domanda: dopo anni passati sul lato palco a suonare la chitarra, come ci sente al centro come frontman? “Sono pochi metri di distanza ma sembrano chilometri, certe volte. Ho la fortuna di avere una band di amici, per cui è tutto molto naturale… Ma non tornerò più a fare il session man, credo. Lavorerò solo con amici e su progetti speciali. Ma se mi chiamesse Jarvis, con cui mi sento costantemente e che ora vive a Parigi, correrei subito…”.
Lui è esattamente come la sua musica: sembra uscito dagli anni ’50, con i suo capelli ingelatinati tirati indietro e gli occhiali neri alla Roy Orbison, ma il suo aspetto e la sua musica tradiscono un qualcosa di moderno, quasi punk. Nelle canzoni di “Coles corner” il punk non c’è, almeno non direttamente. Ci sono invece canzoni melodiche e malinconiche, che potrebbero venire dal repertorio di Sinatra, Cash o Elvis, se non fossero suonate con un piglio che è tipicamente attuale. “Certamente ho ascoltato tutta questa gente”, dice lui, “ma sono molto sicuro che questo disco avrei potuto farlo solo io, solo adesso. L’ho scritto e registrato in 22 giorni, cercando applicare il metodo della Sun Records: catturare non solo le canzoni, ma l’essenza di chi le suona. Per questo le ho registrate in presa diretta. E non è una questione di tecnologie: il digitale va benissimo, è molto utile e non lo ritengo freddo, come molti miei colleghi che lo ritengono privo d’anima. Il computer è solo uno strumento”.
Tra i tanti riferimenti che vengono in mente ascoltando “Coles Corner” c’è il grande cantautore Scott Walker, che produsse l’ultimo disco dei Pulp. “Scott è stato uno dei più grandi aiuti e sostenitori della mia musica. Ma i suoi dischi erano molto più grandiosi, io ho usato gli archi in tre canzoni, e basta”.
In una cosa “Coles Corner” è retrò: i temi malinconici delle canzoni. Deve il suo titolo ad un luogo della natia Sheffield: “E’ dove si davano appuntamento i miei nonni, il luogo di ritrovo della città”, spiega. “E’ un po’ il simbolo di un modo antico di vivere le relazioni e i posti. Gli attuali amministratori hanno distrutto Sheffield, e Coles Corner non è neanche più indicato. Ma mi piaceva ricordare un tempo in cui la fiducia era la base di tutto: ci si dava un appuntamento un sacco di tempo prima e bisognava fidarsi dell’altro, senza messaggini dell’ultimo minuto… Accadeva a Sheffield come dappertutto”.
Un ultima domanda: dopo anni passati sul lato palco a suonare la chitarra, come ci sente al centro come frontman? “Sono pochi metri di distanza ma sembrano chilometri, certe volte. Ho la fortuna di avere una band di amici, per cui è tutto molto naturale… Ma non tornerò più a fare il session man, credo. Lavorerò solo con amici e su progetti speciali. Ma se mi chiamesse Jarvis, con cui mi sento costantemente e che ora vive a Parigi, correrei subito…”.
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